Oliver
E così sono ingrassata dieci chili. Ma pazienza quando si è incinte, si sa, si tende ad assecondarsi nei desideri. Vero è che nei miei desideri non c’è mai stato quello di ingrassare a dismisura, ma tant’è.
In fin dei conti li avrei persi sicuramente, pensavo.
Pensavo, progettavo e immaginavo la nostra vita con un nuovo coinquilino.
Poi improvvisamente un temporale. Non una pioggia estiva leggera dopo la quale si spera di osservare l’arcobaleno, ma una pioggia fredda e battente che non lasciava tregua, che si dilatava nel tempo e nello spazio, che si prendeva la mia vita, il mio corpo la nostra quotidianità e la mia immaginazione.
Ho imparato una lezione. Non sempre va come te lo raffiguri.
Dopo il puerperio, trascorso soggiornando in terapia semintensiva tra un esame diagnostico e l’altro, siamo tornati a casa tentando di ricostruire la nostra vita dopo la tempesta.
Non tutto era distrutto.
C’era il germoglio dell’amore da curare.
Oliver ci guardava con i suoi occhi verdi.
Questo avrebbe dovuto consolarci. Invece no.
Eravamo angosciati dalla differenza tra quello che avevamo immaginato e la realtà, traumatizzati per capire che stavamo soffrendo per noi stessi.
Non so se per egoismo o per il desiderio di normalità, abbiamo pensato che un fratello o una sorella potesse risollevarci dal torpore e diradare la nebbia.
Uno o una. Non due contemporaneamente. Dunque, mentre le analisi mostravano le beta hcg con un valore di cinquantaseimila al quindicesimo giorno di ritardo, abbiamo anche festeggiato il primo compleanno di Oliver. Solo in seguito avremmo scoperto che il quadro di Oliver era ascrivibile a una mutazione genetica.
Mutazione “de novoooo”… “de novoooo”… “de novoooo” un assordante riverbero ci frastornava come se fossimo stati dentro una cassa armonica. Una sola mano tesa a tiraci fuori da lì.
Certo che la vita poteva anche essere più clemente. Un sadico e grottesco scherzo del destino si era avventato su di noi.
Perché?
Con lentezza e fatica abbiamo iniziato la nostra nuova vita.
E adesso? Che si fa? Cosa rimane da progettare di fronte a una realtà tragica e inaspettata? Abbiamo cominciato a occuparci del piccolo Oliver e della nostra famiglia senza sapere né come né da dove partire. Intanto, Ernesto e Leone erano lì a indicarci la strada della normalità della gioia di essere dei tipici genitori, delle conquiste semplici e veloci, dello stupore, a insegnarci che cosa sia un miracolo.
Ho un ricordo molto confuso dei primi anni di Oliver riguardo alla gestione della riabilitazione, i colloqui inutili e inconcludenti con i medici o con figure per niente empatiche dalle quali non avevamo alcun tipo di risposta, tantomeno supporto.
Invece i momenti con Oliver, le ore passate a cantare e a ballare con lui in braccio per fargli sentire che per noi lui c’era, quelli si, di quelli ho un ricordo viscerale perché abbiamo costruito in questo modo il nostro rapporto e i nostri dialoghi: con le parole del canto e con le emozioni, attraverso l’intesa di quello sguardo, ricercato ossessivamente, finalmente incrociato.
Oliver, quando si sveglia, ci sorride, quando abbiamo un pasticcino in mano ci viene incontro camminando, quando gli faccio il solletico ride, quando gli tolgo la maglietta per cambiarlo alza le braccia perché vuole le sue carezze e in quei momenti dimentico, come se nulla fosse mai successo. Finalmente vedo Oliver che è così.
Una farfalla dentro a un bozzolo, ma pur sempre una farfalla.